Contenuto principale
Idee, esperienze, buone pratiche
Lo svolgimento del Laboratorio ha proposto un inquadramento di tipo teorico e generale sulle politiche di audience development per fidelizzare e ampliare i bacini d’utenza; un percorso di riflessione per entrare nello specifico dell’approccio interculturale, esaminando alcuni progetti particolarmente significativi e prendendone in esame in particolare le criticità, gli elementi che hanno provocato in alcuni casi ritardi, attriti, conflitti. La parte centrale della giornata ha visto la presentazione di una serie di casi studio su esperienze condotte in Italia.
Parlando di audience development, Alessandro Bollo ha premesso di avere come riferimento operativo il caso dei musei, anche se ovviamente dal punto di vista delle tecniche e dell’approccio, il percorso esposto si può estendere ad altri contesti quali centri culturali, biblioteche, spettacolo dal vivo, ecc., fatti salvi una serie di ragionamenti relativi alla mediazione: nei musei, infatti, ci si occupa di “oggetti” e della possibilità di utilizzarli quali “mediatori”, creando storie con e attorno ad essi.
Un punto di partenza, apparentemente provocatorio, è che diventare un pubblico vuole dire superare delle barriere.
Questa prospettiva è opposta a quella scelta normalmente da chi organizza eventi culturali, realizzando belle mostre, ottime collezioni, ottime stagioni di teatro o di musica e ritenendo che la qualità intrinseca di quanto proposto sia garanzia automatica dell’arrivo di un pubblico o pubblici diversi, ma questo è vero solo da un certo punto di vista.
Accogliere questa prospettiva vuol dire, invece, ragionare sul fatto che esistono vari ostacoli alla fruizione culturale, legati ai temi dell’accesso, della rappresentanza, alle logiche di partecipazione.
Tali barriere saranno molto più deboli per le tipologie di pubblico, per le quali queste istituzioni storicamente sono nate. Infatti, se oggi si cerca di raccogliere idee, energie, esperienze per ragionare in termini di inclusione sociale, i musei e i teatri – sostiene Bollo - sono nati invece come organismi di produzione di esclusione sociale, nel senso che avevano un riferimento diretto con un certo tipo di pubblico, quello borghese colto.
Questo ha significato perpetuare nel tempo una serie di rapporti privilegiati dal punto di vista della comunanza di un contesto culturale, di un codice comunicativo con alcune fasce di pubblico, che sono quelle che ancor’oggi grandemente definiscono la cosiddetta “domanda culturale”, ovvero un pubblico mediamente più istruito, che ha determinate caratteristiche socioculturali rispetto al cosiddetto “non pubblico”: categoria molto generica, riferita a una complessa realtà di persone, che per motivi differenti non partecipano agli eventi proposti.
Sarà fondamentale riconoscere questi aspetti, la natura delle barriere e degli ostacoli – con riferimento specifico al pubblico variegato dei “nuovi cittadini” - per capire come possano essere rimossi.
Il percorso per individuare queste barriere si svolge attraverso tre passaggi: il primo è garantire le migliori condizioni di accesso rispetto ai pubblici che si vogliono includere.
In un recente rapporto commissionato dalla Fondazione Cariplo, si legge che qualsiasi biblioteca, teatro o museo non impegnato nell’abbattimento delle barriere all’accesso, le sta di fatto mantenendo attivamente.
Quali sono le barriere all’accesso?
Immediatamente vengono alla mente le barriere architettoniche, la prima condizione dell’accessibilità è garantire a tutti di poter entrare e poter fruire nella maniera più piena e totale di una determinata esperienza; anche le barriere economiche hanno un loro peso, che non è costituito solo dal prezzo del biglietto ma da altri costi aggiuntivi (costo del trasporto, costo legato al tempo, ad es. mangiare fuori o lasciare il figlio alla baby sitter, ecc.).
Evidentemente questi sono aspetti che vanno considerati in fase di programmazione culturale per individuare strategie di abbattimento di queste barriere, che però non sono tuttavia le uniche.
In maniera più persistente ed importante alcuni tipi di fruizione implicano problemi di accessibilità culturale:
l’esperienza del museo è vista come un’esperienza complessa, che comporta una serie di rischi di natura individuale, psicologica, sociale e mette in gioco logiche che possono provocare sensazioni di inadeguatezza. Sussistono barriere di tipo percettivo: molto spesso esistono cliché rispetto a determinate attività culturali, stereotipi, pre-giudizi, che hanno una valenza forte di resistenza, su cui è molto importante lavorare dal punto di vista della comunicazione, facendo leva sul cambiamento di questa percezione.
Sapersi comportare in un determinato spazio significa essenzialmente sapere che cosa si può e che cosa non si può fare. Alessandro Bollo ha fatto riferimento ad un pannello visto al Musée de Beaux Arts di Lione (“Dans les salles d’exposition on peut”), perché gli è piaciuta la logica di creare un rapporto con il pubblico in cui la prima cosa che si afferma non è un divieto (v. immagine 1).
Dal punto di vista psicologico, l’incontro con la situazione parte da un incipit tale per cui chi non ha dimestichezza con il luogo sostanzialmente interpreterà l’inizio della visita come il primo fattore di lettura di quello spazio, da cui discenderanno una serie di comportamenti. Una logica che potrebbe essere rimodulata anche in maniera positiva, suggerendo una serie di esperienze e comportamenti possibili: si possono fare molte cose e ce ne sono alcune, marginali che invece non sono consentite.
Rimuovere queste barriere legate all’accesso è il primo passo e non è detto che basti per creare pubblico nuovo: non basta aprire le porte a pubblici diversi da quelli canonici, afferma Bollo, bisogna innescare un ulteriore sforzo di tipo progettuale, che implica innanzitutto un coinvolgimento più attivo.
Il secondo elemento su cui lavorare è la partecipazione, con iniziative ideate per pubblici specifici, che siano le famiglie, gli stranieri residenti, i teenager, i disabili o gli over 65: significa mettere in campo progettualità volte a far partecipare lo specifico pubblico in maniera piena, come si dice adesso in maniera esperienziale.
L’ultimo elemento è quello della rappresentanza o della rappresentazione di una cultura o di più culture.
Si tratta di promuovere iniziative, progetti, attività che riequilibrino una mancata o distorta rappresentazione di gruppi, di culture o sottoculture, evitando descrizioni generalizzanti che rinforzano gli stereotipi.
Si parla di audience development, ragionamento complesso che si nutre di apporti che derivano dal marketing, di riflessioni che pervengono dalle attività educativo-didattiche inerenti con la progettazione scientifica e artistica; pensando agli stranieri residenti si innesta un ulteriore ragionamento sull’interculturalità, che non è banalmente solo una questione di marketing o di ampliamento di pubblico, ma investe le logiche legate al ruolo dell’istituzione culturale stessa: cioè mette in discussione il ruolo di chi produce cultura.
Che le istituzioni culturali debbano sempre e per forza giocare un ruolo attivo nella battaglia contro l’esclusione sociale è argomento tutt’altro che pacifico, se ne discute a livello europeo così come all’interno dei diversi settori specifici. Emergono delle differenze sostanziali molto forti rispetto al fatto di utilizzare la cultura e l’arte come ingredienti nella lotta all’esclusione sociale, vista come precondizione per produrre anche esclusione economica.
Questo dibattito vede, da un lato l’anima anglossassone, in cui maggiormente si è affermato quello che si chiama approccio strumentale della cultura, specie negli anni del primo governo Blair. Le istituzioni culturali dovevano avere come scopo principale non solo quello di produrre cultura, ma rivestire anche finalità educative e soprattutto essere uno strumento attivo di miglioramento del capitale sociale e culturale del territorio; divenire catalizzatori di processi di rigenerazione sociale, urbana, economica; utilizzare i contenuti e le collezioni come pretesto quindi, non solo per parlare di arte, di bellezza, di scienza, ma per interventi molto specifici di riqualificazione.
Negli ultimi tempi si assiste ad una valutazione critica di questo approccio anche in Inghilterra. Se fino a vent’anni fa, inoltre, alle biblioteche si chiedeva di fare le biblioteche e ai musei di fare i musei, oggi si è creata una situazione schizofrenica in cui retoricamente vengono affidate possibilità sempre più ampie e dall’altro lato vengono tolte le risorse.
Dall’altro, si è affermato un approccio estetico-sostanzialista: teatri, musei, biblioteche devono fare ciò per cui sono “nati”, per realizzare le altre attività esistono invece istituzioni create proprio con questi scopi. Ma anche questo approccio ha mostrato i suoi limiti.
Quello su cui varrebbe la pena di ragionare è la possibilità di trovare una terza via, in una zona intermedia rispetto alle precedenti, in cui non si rischi di slegarsi totalmente dalla propria identità e che sia allo stesso tempo compatibile con le proprie risorse.
Questa via non dovrà essere percorsa da soli, ma ciascuna istituzione dovrà cercare adeguati compagni di viaggio.